Essere umano e intelligenza artificiale: chi è al volante?

di Luca Gragnoli, Liceo Mameli

Oggi più che mai è necessario definire il rapporto tra uomo e macchina, eppure la loro relazione appare tutt’altro che univoca. Mentre i veicoli a guida autonoma sono appositamente progettati per ridurre al minimo la componente umana, fonte di pericoli sulla strada, in altri casi invece, come per l’arte, nessuno oserebbe rimpiazzare un umano con un computer. Ora che l’intelligenza artificiale generativa (GenAI), come il celebre ChatGPT, è alla portata di tutti, studiosi e specialisti si chiedono con sempre maggiore urgenza dentro quale delle due categorie precedenti rientri l’AI applicata all’ambito accademico e della ricerca.

Non vi è studente oggi che (magari per gioco, magari per fare prima) non abbia chiesto aiuto a ChatGPT per la realizzazione di un lavoro di scuola, meravigliandosi peraltro della qualità dello scritto, uguale se non addirittura superiore a quello di un giovane (forse che anche questo articolo è stato scritto da ChatGPT? Saresti in grado, caro lettore, di distinguerlo?). Tuttavia, molti si chiedono se questo sia un rapporto veramente sano, oppure semplicemente l’ennesima tecnologia che rende schiave le persone (come dimostra ampiamente il mio collega Andrea Franco in un articolo del presente giornalino). Ma c’è di più: se le automobili impigriscono il corpo, la GenAI rischia di invece intorpidire il logos, ovvero quella facoltà che, secondo il filosofo greco Aristotele, distingue maggiormente l’essere umano dagli altri animali. Se le cose stanno così, la scuola non diventa altro che una palestra per la GenAI.

Similmente, il rapporto tra la GenAI e i ricercatori non è meno dibattuto. Se infatti da un lato ChatGPT figura già come autore di studi al fianco di autorevoli “colleghi” umani, molti editori, come il direttore della rispettata rivista scientifica “Science”, hanno proibito di inserire qualsiasi testo prodotto dal software nei saggi proposti per la pubblicazione. Inoltre, mentre i ricercatori sostengono che il suo impiego potrebbe democratizzare la ricerca riducendo i costi (relativi, per esempio, all’assunzione di assistenti), le riviste controbattono affermando non solo che, se avessero voluto un articolo redatto da un bot, ci avrebbero pensato loro stesse, ma anche che, in un mondo in cui il negazionismo scientifico è la norma, una tale cattiva condotta scientifica non può, alla fine, che danneggiare la ricerca stessa.

Per cercare di contribuire in modo costruttivo a questo dibattito, i miei compagni ed io (del 4E del Liceo Mameli) abbiamo partecipato ad un progetto di analisi delle relazioni semantiche tra tre romanzi della letteratura italiana del primo Novecento a partire da quanto era già emerso dallo studio realizzato da algoritmi di ”language” e “topic model”, supervisionato da esperti provenienti da diversi ambiti, la cui presenza è stata assolutamente imprescindibile visti i numerosi errori prodotti dalla GenAI a causa dei suoi bias di selezione. Perciò, se è innegabile che senza la partecipazione dell’elemento tecnologico la ricerca non sarebbe nemmeno iniziata, la componente umana è stata altrettanto fondamentale, poiché altrimenti sarebbe stato impossibile dare un senso ai risultati iniziali.

Dunque, questo esempio ben esemplifica la tesi che qui cerchiamo di avanzare. La GenAI è ormai una realtà, e continuerà ad esserlo per molto tempo, bisogna dunque stabilire il suo ruolo, proprio come abbiamo deciso che scopo di un bastone non è quello di malmenare qualcuno, bensì di fare da appoggio a chi ha problemi a camminare. Proprio come un bastone, anche la GenAI è uno strumento, come tale al servizio dell’essere umano, e non viceversa. Deve servire da input, non da output. Deve essere lo stimolo inziale, non il prodotto finale. Deve, insomma, permettere alle persone, siano studenti o ricercatori, di esprimere appieno il loro potenziale come mai prima era stato loro concesso. Crediamo quindi che, mentre il tragediografo greco Sofocle scriveva nell’Antigone che “molti sono i prodigi e nulla è più prodigioso dell’uomo”, egli stesse pensando all’Odisseo omerico che, per accecare il Ciclope, mediante la sua proverbiale métis (astuzia) applicata alla téchne (tecnica) trasformò un tronco in un palo appuntito e arroventato.

In conclusione, né come le macchine a guida autonoma né come gli artisti umani, ma come quegli scienziati olandesi che, dialogando con l’intelligenza artificiale, sono in grado di diagnosticare più facilmente e con maggiore precisione i tumori cerebrali e che, pertanto, allo stesso tempo mettono da parte l’inerzia di alcuni e la gelosia di altri, cancellano la lontananza tra “noi umani” e “quelle macchine” e, sulle orme di Andrea Sarti, personaggio di brechtiana memoria, ci conducono con il loro esempio illuminato a quella che a ragione si potrà considerare una nuova era del genere umano.