Continenti alla deriva?

di Luca Gragnoli (Liceo Classico “G. Mameli”) e

Lucio Sebastiano Pinti (Liceo Classico “Ennio Quirino Visconti”)

Himun 1

Day 1 — Tuesday, January 23   

Volo cancellato. Una stanza 10x3 ospita 65 ragazzi provenienti da tutta Italia. Passano le ore. Dopo aver sacrificato a Diana, i 65 raggiungono il gate sani e salvi. Finalmente seduti, prendono sonno. Ma è un sonno difficile—sanno che lo scalo a Londra non sarà facile. Alcuni di loro non hanno il biglietto Londra-Boston. La compagnia aerea fa resistenza. Il tempo passa. Il gate chiude. È finita. Sono le 8 pm ora locale ed è tempo di scegliere le panchine su cui passare la notte… Quando la loro tutor, scortata da un dipendente di Heathrow, li conduce al gate trionfanti. A questo punto, uno ad uno cadono incoscienti sui sedili dell’aereo. Ma perché questa odissea? Qual è la loro Itaca?   

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HMUN. Un MUN - Model United Nations - è un progetto di simulazione in cui si vestono i panni di delegati presso le Nazioni Unite. Valide come PCTO, queste esperienze all’estero permettono di visitare città in tutto il mondo. Il tutto sembra una bella vacanza, un modo per saltare scuola e divertirsi (avendo, per di più, le ore di assenza giustificate). Oppure no? Dipende. HMUN (“H” sta per Harvard) si svolse per la prima volta nel 1927, quando a essere simulato era il predecessore dell’ONU, ovvero la Lega delle Nazioni. HMUN offre -come tutti i MUN d’altronde- la possibilità di fare nuove conoscenze, discutere di problemi di importanza globale, delle loro cause e di come risolverli, in modo democratico e aperto. Per gli studenti interessati, preparatevi a sborsare $2500 e a essere in stanza alle 12:30 pm, orario del coprifuoco.            

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           Day 2 — Wednesday, January 24  

  7 settembre 1630. La città di Boston, Massachusetts (nord-est americano), viene fondata da una comunità di puritani in fuga dall’Inghilterra. Seppur siano passati secoli, l’architettura urbana ne conserva ancora le tracce. I piccoli ma regolari palazzi in rosso mattone che tappezzano la città però convivono ormai con un’altra faccia della stessa— quella della metropoli moderna. A metà sta il Museum of Fine Arts--- il più importante museo d'arte bostoniano che, a confronto con gli standard europei, sembra un chiosco. Al di là, infatti, dell’arte europea importata (soprattutto Monet), la tradizione artistica americana si riduce a mobili in legno o, e questo salta all’occhio, a una fervente celebrazione patriottica. E infatti Boston, città centrale della guerra d’indipendenza americana, è attraversata dal Freedom Trail, una linea rossa che attraversa i marciapiedi della città collegando i luoghi chiave della Rivoluzione.   

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  A Roma ci lamentiamo di ATAC. A Boston non c’è da lamentarsi. Non ci sono mezzi. Il servizio metropolitano è esteso, ma maltenuto e i bus passano ogni 30/60 minuti, su una rete terrestre estesa, ma molto rada. Tuttavia, è presente sui bus una macchina per fare i biglietti (ma solo in contanti) e la metro, quando è in manutenzione, è gratis.  

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Day 3 — Thursday, January 25   

The New England Aquarium è un piccolo ma bellissimo acquario. Moderno e dotato di una vasca per i pinguini, presenta al centro un grande cilindro verticale attorno al quale gira una passerella che permette di ammirare i pesci all’interno. Vi sono anche dei simpatici leoni marini in due vasche esterne all’edificio principale.   

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  Tornati in hotel, si passa alle cose serie. Dopo una cerimonia di apertura in una sala congressi raggiungibile, come tutto, solo servendosi di scale mobili, due di quei 65 ragazzi (gli autori di questo articolo) si dirigono come delegati alle rispettive commissioni. Quest’anno, Luca si finge Filippino e Lucio Mauritano. Ma se Lucio difende la parità di genere in ILO (l’organizzazione ONU per i diritti dei lavoratori), Luca viaggia nel tempo. È il 1955, a Bandung, Indonesia. Trenta paesi del Terzo Mondo si riuniscono per discutere della decolonizzazione e del proprio ruolo nella Guerra Fredda. Questa, come qualcuno avrà capito, non è propriamente una commissione ONU. Si tratta di una novità di HMUN. Gli harvardiani, infatti, si divertono non solo a ricreare historical committees e regional bodies ma anche a inventarne di nuove. Immagina di essere un membro del Board of Directors di TikTok, o Cicerone dopo la morte di Cesare, o un membro della corte di Elisabetta I o… una Barbie?  

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Day 4 — Friday, January 26   

  Durante la mattina si visita Harvard. L’Università è stata fondata nel 1636, 548 anni dopo quella di Bologna, e si trova a Cambridge (non quella Cambridge). Il campus, caratterizzato dal solito rosso mattone, è unico, con un bel giardino al centro. La nostra guida, abituata alle intemperie, bevendo il suo caffè e facendo battute, ci racconta la storia di una delle università da cui sono passate alcune persone di grande rilevanza storica, tra cui otto presidenti americani. A pochi passi da Harvard si erge il MIT, Massachusetts Institute of Technology, l’eccellenza per quanto riguarda le materie tecniche e scientifiche.   

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Nel pomeriggio si torna a lavorare. Ormai il formal debate è terminato e si passa alla stesura dei primi working papers, ovvero documenti su cui le prime coalizioni di delegati buttano giù idee per rispondere alla problematica proposta. La cosa va avanti fino a notte fonda, ma per fortuna gli harvardiani ogni tanto si mettono a leggere bigliettini e gossip sui membri della commissione per sciogliere la tensione. Insomma, è davvero un modo eccellente non solo per conoscere gente da tutto il mondo (Luca ha provato cibo algerino grazie a un ragazzo di quel paese durante una festa che celebrava proprio le culture rappresentate a HMUN) ma anche per sviluppare abilità che spesso la scuola italiana trascura, come il public speaking. Specialmente commissioni piccole come la Conferenza di Bandung (22 ragazzi contro i 200 in ILO) permettono di mettersi in gioco senza sosta e di stringere amicizie con i fellow delegates.     

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Day 5 — Saturday, January 27   

  A questo punto, i più attenti tra voi lettori avranno sicuramente notato un grande assente: il cibo. Effettivamente, c’è poco da dire. Non è cibo se lo si giudica con i nostri standard. Dato che quasi nessun americano è in grado di cucinarsi da sé, si prende sempre cibo da asporto: da Starbucks la mattina, da Five Guys a pranzo e la sera “pizza” da Domino’s. Tutto ciò, alle orecchie di un italiano, suona come il pianto di Demetra. Ma tristemente questa è la realtà. Eccetto per i soliti privilegiati, nessuno in America mangia sano. Lucio e Luca hanno avuto una sola esperienza culinaria degna di nota al di là dei soliti panini e bibite: una cena da Rochambeau, ristorante francese non proprio economico. Insomma, il cibo vero si paga, e non poco.   

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  Qualunque italiano in America resterà colpito da un altro aspetto della ristorazione americana: la mancia. La mancia riflette la cultura puritana di cui parlavamo prima. Il mito del self-made man implica infatti che il cameriere, se vuole mangiare, deve meritarselo. Come tutti. Ecco “grosso modo” perché il servizio sanitario americano è costoso quanto Rochambeau. La società lì non è collettivista, ma individualista. Prima io, e poi io, e forse noi.   

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Day 6 — Sunday, January 28  

  Tre dure sessioni di commissione.   

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Day 7 — Monday, January 29  

  L’ultimo giorno Luca e Lucio sono liberi di fare quello che vogliono. Dopo una bella colazione (a chiunque vada in America a fare queste simulazioni Luca consiglia caldamente il Matcha Tea Latte!!!), i due, zaino in spalla, camminano decine di chilometri accompagnati dall’umido vento della baia. Ma al di là delle singole mete (il già citato MIT, lo stadio da baseball Fenway Park o la Boston Public Library), è interessante rilevare un aspetto dell’impianto urbanistico bostoniano: a differenza della schematica New York, dove le strade potevano essere attraversate solo quando un omino bianco appariva sui semafori, la spontanea Boston, anche nella zona più moderna, assomiglia molto a Roma. Con la sua storia secolare, la città è il risultato di infinite interazioni urbane. Le strade sono curvilinee, i palazzi non allineati, i quartieri irregolari e gli attraversamenti avvengono anche quando una manina arancione ti invita in realtà a fare il contrario.   

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  Quando si cammina per strada, si distinguono numerose figure che corrono a lavorare. Dentro la testa di ogni americano, come in una poesia di Marinetti, la parola “Produrre” si ripete incessantemente. Tutti lavorano. Se non lavori o sei chi dà il lavoro, nella maggior parte dei casi grandi multinazionali sfruttatrici, o sei uno dei tanti senzatetto, malconci, lasciati al freddo e abbandonati a tal punto da essere più soli di Filottete. La paura di diventare come loro è ciò che induce gli americani a farsi sfruttare. E se sei uno degli sfruttatori, complimenti! Allora non puoi che diventare più ricco!   

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Himun 3

Day 8 — Tuesday, January 30  

  L’aereo è previsto a tarda sera e tutti vogliono tornare. Chi per un motivo e chi per un altro. Alcuni rimpiangono di non aver visto un posto, altri di dover salutare un amico. Ma tutti sono felici di aver avuto l’opportunità di conoscere più da vicino un aspetto dell’America spesso nascosto dai grattacieli.   

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— “Thalassa! Thalassa!” — Finalmente casa. Certo non è stata la spedizione dei Diecimila, eppure qualcosa i due giornalisti in erba l’hanno imparato. Boston è un altro mondo rispetto non solo a casa nostra, ma anche rispetto a New York. Boston almeno è ancora viva. New York è ormai da anni fredda come un cadavere. I sogni ingannano. Quello americano lo ha fatto. Quello europeo non ancora. Non cedere alle altrui logiche consumistiche e produttivistiche, preservare il nostro genere di vita e la nostra identità: questo è il compito che il Vecchio Continente ha oggi davanti a sé, più pressante che mai.   

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Himun 2