È tutto oro ciò che luccica?
di Giulia Cundari
Una luce verde. Un bagliore indistinto in lontananza, bellissimo quanto irraggiungibile, che rapisce e riempie di desideri, di sogni.
È la luce che segna le ultime pennellate del racconto, che sommerge la morte del protagonista, Gatsby.
L'unico personaggio attivo in un romanzo pieno di lerci tradimenti, immobilismo e polvere. Un personaggio positivo, devoto all’ideale, “uscito a decidere quale porzione gli spettasse del cielo”.
Ed è su queste note che il sipario cala, inondato di luce verde. La stessa che ci rimanda alla prima apparizione di Gatsby, intento a guardare il firmamento, proteso verso una mitica luce verde oltre la baia. La luce è quella di un faro posto davanti al molo, di fronte la casa di Daisy. Il suo Santo Graal. Il verde come ricerca, come orgasmica speranza di successo. Il verde dei lepricauni, della ricchezza. Nick, infine, collega la luce verde alla Storia delle origini del continente americano. Gatsby nell'explicit è paragonato ai marinai olandesi che per la prima volta osservavano Long Island dal mare e ammiravano “il fresco verde seno del nuovo mondo”. Il sogno individuale di Gatsby (recuperare la sua antica fiamma) viene sovrapposto ad un altro più universale, che oltrepassa il desiderio amoroso (d'altronde lo stesso Nick, narratore attraverso cui conosciamo il protagonista e la sua storia, ammette che Gatsby “si era spinto al di là di Daisy, al di là di tutto” - ovvero il sogno americano). Il mito dell'America come terra delle infinite possibilità è quindi messo in discussione da Fitzgerald.
Per Gatsby il desiderio di rivivere il passato diventa un’ossessione, un’infezione che si espande nel corpo senza possibilità di salvezza. Jay Gatsby rappresenta in toto l’idea del self made man, colui che, partendo dal basso riesce ad arrivare in alto, tra quelli che contano davvero. In questo caso nell’alta borghesia di New York: feste, alcol, divertimento effimero, bello perché proibito agli altri. Gatsby in tal senso non si fa mancare nulla, sono le sue feste ad essere le più grandi, le più belle, quelle in cui devi assolutamente andare, in cui bevi il vino migliore, mangi il cibo più buono. Lo sfarzo dei Ruggenti anni venti in America è concentrato in un solo uomo, che sembra riuscir ad illuminare le vite altresì noiose e piatte dei suoi vicini. Ah, Gatsby. Riesce ad ammaliare chiunque, una forza attrattiva fuori dal comune, amato e temuto da tutti. Però la luce verde non riuscirà ad afferrarla mai, perché questa, simbolo del capolavoro di Fitzgerald, non è altro che l’illusione più grande della società del Novecento: credere che vi sia qualcosa che possa realmente colmare la nostra essenza.
Quando Gatsby osserva la luce verde lo fa di notte: solo così può risaltare lo splendore. Così l’occhio umano, portato come una gazza ladra ad inseguire ciò che più luccica, si sofferma su quella luce. È un ottimo modo per camuffare, per dimenticare (o fingere di dimenticare) che, pur guardando quella luce luminosa, noi siamo immersi nel buio. È il mare quello che dimentichiamo di osservare, quell’immensa distesa di cui spesso non vediamo la fine, piena di pesci, di alghe e di relitti, di segreti e ferite nascoste nella parte più profonda del nostro essere.
Però guardare il mare sarebbe una presa di consapevolezza troppo grande: meglio soffermarsi sulla luce.
Luce come desiderio di riempimento, desiderio di completezza.
Noi esseri umani, da che mondo è mondo, ci sentiamo come incompleti. Per i cristiani, una volta che siamo stati cacciati dall’Eden, siamo diventati finiti (destinati a morire) e imperfetti. Per i greci, l’uomo è un essere di mancanza che cerca tutta la vita la sua metà perduta, come ci racconta il Mito degli Androgini. L’ansia di ricercare qualcosa che siamo sicuri in passato ci apparteneva e che ora abbiamo perso. La tensione continua verso la luce, verso quell’essere indefinito che, apparentemente, potrebbe farci tornare perfetti, immortali, e pieni. E se invece quello che stiamo cercando fossimo esattamente noi? Se il soggetto fosse due, diviso da sempre tra un essere e un non essere? Cosa cercare in questo caso, qualcosa che non esiste in nome della nostra esistenza, o il contrario?
Anche Gatsby crede in un passato perfetto (e quindi in un vecchio, ovvero altro sè) che intende ricreare: questo, ci spiega Fitzgerald, è impossibile.
Jay Gatsby è infatti un dislessico temporale, confonde il passato con il futuro, pensa che si possa replicare, proietta tutte le sue energie in qualcosa che non avverrà mai. Perché questa è la sua natura. La sua devozione verso l'irreale, la sfarzosa pignatta traboccante di speranza e di fantasticherie che è la sua mente e il romantico rifiuto del fallimento, lo rendono l'immortale figura tragica che ci rappresenta ancora oggi. Gatsby ha tutto ciò che un uomo potrebbe desiderare, tranne ciò che vuole davvero, Daisy. È una condizione esistenziale: siamo destinati a rincorrere la luce per tutta la vita, una luce artificiale, creata dall’uomo per l’uomo, che però è inefficace. Poiché l’assenza è a livello ontologico causa di desiderio, possiamo dire metafisico, che quindi va oltre le cose materiali che, ovviamente, non possiamo possedere in maniera trascendentale. Quindi i soldi, la fama, le relazioni con altri essere umani. Tutto è quel verde artificiale e artificioso che non ci illumina ma anzi ci acceca, facendoci credere che vi sia una soluzione al di fuori di noi.
Anche Gatsby ci ha provato, per tutta la vita. La sua infelicità era dovuta alla mancanza dell’amata, o meglio: alla nostalgia del passato con la ragazza amata. Daisy non è più la stessa, il passato non si può ripetere: la mancanza di Gatsby è ontologica, al suo dolore non c’è soluzione, se non la morte. Questa cancellerà l’ansia di ricerca senza aver però dato una risposta: ironico come con un’anafora viene ripresa la frase che pronuncia in quest'occasione Nick “Così proseguiamo verso la morte” che nel finale diventa “Così remiamo barche controcorrente”. Indicate le due direzioni (opposte) del romanzo: fuggiamo dal fallimento, dal nostro vuoto interiore, rifugiandoci nel sogno, nella luce, nel desiderio di pienezza, ma è proprio questo circolo vizioso che certe volte finisce per sfinirci. Ma una vita vissuta al sicuro, senza pericolo, che vita sarebbe? A chi rischia niente infamia, solo lode.
Come Gatsby che, pur non avendo certo un lieto fine, viene ricordato da tutti come Grande.
La lezione che si può trarre da questo capolavoro, infatti, non è quella del Mito perduto, del seppellimento sotto strati di cenere grigia della “generazione perduta”, del passato irripetibile. Piuttosto pesa di più sul mio cuore il finale che poteva avvenire ma non c'è stato. Gli esseri umani che potevamo essere ma che non siamo. Sembra una situazione senza via d’uscita, eppure, in un ultimo lancio di ottimismo, immagino un Gatsby ancora vivo che, fradicio di pioggia, ostinatamente continuava a chiedersi, “a denti stretti, in attesa che il sogno si realizzasse”: Perché no?
Forse la luce verde, senza che me ne accorgessi, ha accecato anche me.